_

367688444_344198881267173_8712310356943407859_n

Non ho Nessuno per cui danzare,
Erode è morto, si è accasciato.
La strage degli innocenti fu compiuta
al tuo giovane petto, mi abbandonai
delirio e pazzia di tutte le madri.
Così, pieno di gioielli e sudori.
Bisogna mordere la bocca a chi dà
un nome alle cose, ai fiori, ancheggiare
e prostituirsi, allargare i seni prima del diluvio
o della pietra raccolta in terra.
Non ho nessuno per cui danzare,
se non per te, un nome rosso e amaro.
Non esistono fremiti che ricevono grazia
lame si ergono, le teste si adagiano nei coralli.
Sono danzatrice, sono il Decollato.
Neanche i tramonti mi risparmiano.
Si muore giustificati dalla sola bellezza.
Si muore allo sbattere dei fianchi.

sl

B

346794536_263211829403958_2967976205624650865_n

Il ragazzo blu

Puntuali, sotto casa, pettinati, fieri.
La camminata al mare, giù per le discese
consacrate dall’Addolorata.
Guardare un attimo e di sbieco, abbassare gli occhi sulle pietre nere.
Aggiustare il tremolio delle bocche e il rosa, con mezzo sorriso,
una cosa a caso. Aprire braccia come cigni bianchi, e ombre dispiegate,
ristoro dalla fronte all’orizzonte, quando il sole del mezzogiorno cadeva
giallo, impetuoso, perpendicolare, razzia di frescure per muri e chiese.
Bastavano mani dolci, gelso consumato a petto nudo.

E il silenzio un fiore che si concede al Grecale.
A noi l’inverno bagnava le schiene, bassa voce
tra i limoneti di contrada Rubina. Dall’alto un regno blu.
Avevamo armi buone, lame affilate, tutto l’argento
di cui avevamo bisogno, e corazze di luna
e di brezza il sapore. Lineamenti cobalto
abbandonati allo scoglio.

sl

355150735_318240770529651_4512966648951177699_n

Non si è mai nudi, abbastanza nudi

Ho spogliato delle vesti alba e luminari
strappando al tramonto l’arancio e di dosso.
Luna annunciata sul collo.
Ti ho privato dell’oro che impreziosisce l’addome
al calar delle sere.
Non si è mai nudi, abbastanza nudi.
Dovrei impugnare argento e coltelli
per quella luce sul volto, farne carneficina.
Gridi di maggio che chiamano rose.
Preferisco la notte, frescure indossate
tutto quel nero che ti rende elegante, al buio
non ho mai saputo del tuo sorriso o pianto,
mi sono detto: va bene così!

Credevo fosse un rifugio sicuro
quel vagare di riva e pietre scure, mi chiedo
come siano arrivate fin qui, a scovarci lingue larghe e rosse,
senza sole e muri bianchi, nonostante mi sia messo qui
geco al tuo petto, cambiando pelle
lasciandomi morire nel rosa del tuo incarnato.

sl

Ogni mattina lavo bene il petto
ma ci vorrebbe un diluvio biblico
per l’odore acre rimasto addosso
per quelle mani robuste e sconosciute.
Terra umida che si può toccare.
Speravo di incontrare uomini che profumassero
di pioggia, fino a dimenticare il profilo greco
del tuo pianto.
Così perfetto da rigare la luna, spingere
l’alba ai precipizi.

Avrei voluto cambiare pelle come la serpe
al melo, per tutte quelle volte in cui
ho sbagliato persona, persone che chiamavo
col tuo nome, al buio di un quartiere laminato
e le preghiere, così, ad occhi fermi
quando la prima stella del mattino piega le schiene.
Ma il deserto più vicino mi ha reso freddo.

Ogni mattina lavo bene gli occhi,
e ci vorrebbe un palmo largo, del sangue
a Borj Louzir, spacciato per mazzi di fiori.

Mi lavo bene ogni mattina, come se potessi
togliere dalle braccia il rantolo della sera.
Tutto quel Mediterraneo alle mie scapole.

sl

 

@

Nella solitudine della rosa

Cosa ne è stato del rosso
degli aliti brevi che intagliano l’addome.
Piogge battenti al collo di Joseph,
sconsacrati silenzi.
Forse un ricordo, mani alte che raccontano
l’inverno, quel dettaglio, fiori freschi
allo sbracato.

Cosa ne è stato dello scarlatto
abbandonato ai venti, forse il canto
d’un tramonto alle mie unghie.
E’ questo il profumo del cielo
strappato coi denti?

Scavalco muretti in pietra lavica
soltudine di carne che trema.

sl

Credete che a noi non bastasse
l’arancio di una sera d’agosto, avere spalle
d’oro, chiamare per nome un migliaio di stelle,
saper tutto dei bracci d’Orione.
Portare a mani nude l’inferno, così, mentre
alta la luna, si confidava coi porpora
in fronte, un pianto rosa
a segnarci le costole.

Credete non bastasse quel luccichìo
invernale sul mento, un pezzo di terra
dai germogli turchesi. Avere labbra d’argento.
Le nostre teste, affidate a un grido immacolato,
erano bianche.
Non ci fu concesso il confine
dove sciolsero cani dal pelo bruno e lunghe zanne.
Credete che non bastasse la notte
portata alla bocca, il cambio guardia delle giovani albe.

Giunsero fin qui a maledirci, su per le schiene,
sfoderando lame ai colli dei fiori.
Possedevano ogni terra, brulla o verdognola,
fiumi e colline, diedero nome a tre mari.
Gelosi d’una lingua nera, parlata giù a valle,
ci chiamavano portatori di neve e disgrazia, ci espropriarono
del freddo notturno, ci spogliarono dei fuochi ordinati da Giove,
perchè un nostro sorriso avrebbe nascosto la Venere nuda.
Strinsero la notte in un pugno gridando: guardatela bene,
non è vostra.

Ora che vaghiamo per terre brucenti
è di nostro conforto il cielo infranto sugli scogli.
Ora che il rosa carne del petto mette disagio
e le rocce anneriscono il passo, sono giunti fin qui,
sputando fino ai deserti, dicono che non possiamo distenderci
che non abbiamo la grazia dell’autunno,
buona padronanza di luce.
Qui è sempre mezzogiorno,
e il mezzogiorno brucia le gambe.
Che in nome di dio e dei padri, non si lasciano ombre
al grande gelso.

sl

^

Sono tutto il male di cui ho bisogno

Sono l’ombra di tutte le cose, lo scuro che segna le braccia,
col sole alto alla roccia, frescura del grande gelso.
Sono quella cosa nera intorno al collo, la notte
che arrotonda le labbra. L’inverno fermo alle costole.
Non esco mai nel mezzo del giorno, quando la luce
è un taglio alla schiena.
Nel dolore perpendicolare, grido di carne e cicale.
Non sono altro che un ricordo di luna alle scapole, ventre immolato d’argento.
La testimonianza d’un tramonto scivolato sui fianchi.
Sono tutto il male di cui ho bisogno per un po’ di luce sul petto,
e vederti risplendere al torrente, in ogni luogo e i miei deserti.
Sono la pece di una lunga estate, il pianto corvino di noi ragazzi.
E se scrivo, sono il silenzio intorno alle parole,
quel sapore d’alba alle mani.
Sono tutte queste cose nere.

sl

Dovrei sbiancare i muri, contarti le costole
una per una, far luce all’addome d’avorio scolpito
e che siano tutte quante le dita.
Impallidire mezzo labbro, colline spogliate dal grido
acque frantumate alle gambe d’argento.
Dovrei lasciarti in una pozza bianca
col disinteresse che può avere la luna
in una notte madre.
Sbirciare da dietro un fianco, godermi la bella vista
d’un mare, che da qui appare dissanguato.

Ma come tutti gli uomini piccoli, amo allargare le braccia
al sole, domare le sue mani gialle.
Confido nel freddo che ci ha cresciuti, nell’odore che il buio
lascia sul collo, nell’amaro delle voci basse.
Non piangere l’alba, non credere che l’oro mi uccida
è coi morsi che diamo nomi alle rose.

sl

()

Nelle braccia di Atlante

Mantenere la rotta

nei bianchi umidi che s’infrangono alle spalle

mentre il canto di una maliarda stordisce.

Mantenere la calma degli orizzonti

dispiegando al vento le scapole.

Fissando linee d’oro di un tramonto che collassa,

avanti tutta! Mi chiedo in quale azzurro

riemergeranno le tue costole.

Se cercare in lontananza, una mano

a pararmi gli occhi, e labbra di sale

mi salverà dalla brezza affilata sul collo.

Avanti tutta! fino a perdermi nelle braccia

di Atlante.

Vorrei toccare terra, nel grido affamato

del gabbiano. Rimango nudo davanti al mare

senza alcuna vergogna, pentimento.

Mi bagno la fronte in benedizione, nella deriva

degli occhi, accolto da una luce

che riposa sulle rocce.

sl

.

Che nuda la luna non abbia scuse

Da qui passano uomini dal mento ingiallito
e lingue sbrigliate falsano il cielo. Una volta e ancora.
Mi indicano l’Altare più a Nord con aliti freschi e un dito
la possente marcia dei teatranti.
Li hanno mandati da me, perché abbiano spalle larghe e braccia robuste
perché i miei occhi di Medusa non si posino alle bocche.
Mi volto appena in tempo per allietarne le carni
mentre scelgono nomi brevi e sfuggenti, un muro buio
dove chiamarmi a denti stretti.
Giungono con l’odore buono delle fioriture
un petto nero corvino, sollevandomi alto
per offrirmi in dono al nerbo di Orione.
Li hanno mandati da me perché non si può lasciare il mare
nelle mani di un bambino, né si confidano orizzonti d’inverno.
Per confondere pioggia battente e lamento
e distogliere dalle aquile lo sguardo.
Si assicurano che io non vada a pietrificare le ultime rose
che io faccia almeno tre giri su me stesso
che nuda la luna non abbia scuse
che al più presto io muoia d’occhi larghi e pazzo.

sl